“Il lavoro trattato male”: quando la narrazione sul lavoro si allontana dalla realtà
Conversazione con Osvaldo Danzi e Paolo Ghiacci su cultura d’impresa, giovani, e narrazioni tossiche

Chi è Osvaldo Danzi e da dove nasce l’idea del libro?
Mi occupo di selezione del personale da oltre trent’anni e coordino la community “Fiordirisorse”, nata per promuovere una cultura del lavoro fondata sul confronto libero, fuori dai recinti aziendali.
Il libro “Il lavoro trattato male” nasce proprio da questa esperienza: ogni giorno, per mestiere, raccolgo testimonianze di lavoratori e imprenditori, e nel tempo ho accumulato una quantità impressionante di materiali – screenshot, dichiarazioni, post – che rivelano quanto il lavoro venga raccontato male, in modo superficiale, distorto o ideologico.
Il titolo ha un doppio senso: il lavoro è trattato male dai media, ma spesso anche dalle aziende.

Qual è la responsabilità dei media nella costruzione di una narrazione distorta?
I media contribuiscono a creare un’opinione pubblica alterata. Non esistono più editori “puri”: oggi i giornali sono proprietà di aziende, e non possono fare le pulci agli inserzionisti. In più, i giornalisti hanno poco tempo, pochi strumenti e pochi incentivi per approfondire davvero. Risultato? Articoli costruiti senza domande, spesso veri e propri comunicati stampa camuffati da inchieste.
Penso agli esempi ricorrenti: il rider che guadagna 4.000 euro al mese, la bidella che fa 600 km al giorno, l’imprenditore che “non trova personale”. Nessuno si chiede: quanto li pagate? Che tipo di contratto offrite?

Che effetto ha tutto questo sul mercato del lavoro?
A livello sistemico, genera sfiducia e polarizzazione. La narrazione dominante suggerisce che i giovani non abbiano voglia di lavorare, che il reddito di cittadinanza sia il male assoluto, che le imprese siano sempre vittime. In realtà, i numeri dicono altro: ad esempio, l’ISTAT ha confermato che il Reddito di cittadinanza ha contribuito a ridurre la povertà.
Quando il lavoro è pagato il giusto e inquadrato correttamente, il personale si trova. Chi non ha problemi di reclutamento, guarda caso, è chi offre condizioni dignitose.

Paolo Ghiacci, dal tuo punto di vista consulenziale, come si manifesta questa “narrazione tossica”?
In molti casi si riflette nel modo in cui le aziende approcciano il lavoro giovanile. Spesso si tratta di sfruttamento, anche inconsapevole, perché l’unico parametro che guida le scelte è il contenimento del costo del lavoro. Ma i giovani oggi, soprattutto dopo la pandemia, sono più mobili: se non stanno bene, se non trovano ascolto o visione, se ne vanno.
Quando assisto le imprese, cerco sempre di allargare lo sguardo. Un consulente non può limitarsi a suggerire tagli: deve aiutare l’imprenditore a migliorare l’intera performance dell’azienda, compreso il clima interno. E quando si interviene, anche nei casi di crisi, bisogna farlo con rispetto verso chi rimane in azienda.

Qual è il tuo approccio per generare un cambiamento di mentalità?
Evito giudizi. Pongo domande che stimolino una riflessione etica autonoma. Il mio obiettivo è costruire sistemi di incentivazione equi, piani di welfare sostenibili, strategie che tengano conto delle persone e non solo delle cifre.
È delicato: servono modelli su misura, calibrati in base alla realtà aziendale, senza squilibri tra categorie. Ma funziona. A volte è utile anche coinvolgere direttamente i collaboratori in forma riservata, per raccogliere indicazioni che l’imprenditore non riceve perché è troppo distante dalla sua struttura.

Il problema, quindi, non è solo informativo, ma culturale. Osvaldo, esiste ancora una cultura del lavoro in Italia?
Esiste, ma è minoritaria. Oggi manca una vera “cultura imprenditoriale”, nel senso più ampio del termine. Le aziende che non hanno problemi a trovare personale sono quelle che hanno visione, che investono in benessere, che si mettono in discussione. Alcune, nel Nord Italia, hanno persino costruito case per i lavoratori fuori sede, perché sapevano che senza un alloggio dignitoso non si riesce a trattenere nessuno.
Non è solo una questione morale: è intelligenza manageriale. Ma purtroppo molte seconde e terze generazioni di imprenditori sembrano più attente all’apparenza che alla sostanza.

Paolo, quanto pesa la formazione nella costruzione di una cultura d’impresa più sana?
Pesa moltissimo. La formazione dovrebbe essere continua e trasversale, anche per gli imprenditori. Ci sono tecniche, approcci e sensibilità che non si improvvisano. Sarebbe utile pensare a percorsi formativi obbligatori, almeno di base, per chi apre un’impresa, così come esiste la formazione obbligatoria sulla sicurezza.
Capisco che per molti imprenditori possa sembrare un vincolo, ma in realtà è un’opportunità. La qualità delle relazioni, in azienda, è un fattore competitivo decisivo.

Ultima domanda per entrambi: esiste uno strumento per restituire una visione più fedele del lavoro?
Danzi: Gli strumenti esistono. Servirebbero più controlli, una politica pubblica del lavoro più strutturata, ispettori preparati. Ma soprattutto servirebbe un giornalismo indipendente, capace di fare domande, non di amplificare slogan.
Ghiacci: Per chi cerca lavoro, suggerisco di rivolgersi ad agenzie serie e strutturate come Adecco o Gi Group. Hanno un monitoraggio reale del mercato, aiutano i giovani a orientarsi, e in molti casi supportano anche le imprese.
Il cittadino comune, purtroppo, ha pochi riferimenti affidabili. Ma il consulente, se lavora con metodo, può fare molto per colmare questa distanza e promuovere un miglioramento reale, concreto, sostenibile.

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